27 Agosto 2024
Non capita tutti i giorni che il numero uno di una delle più grandi società al mondo faccia mea culpa, ammettendo di aver ingannato. Secondo le regole del giornalismo, questa è una notizia sensazionale, tanto più se a pronunciarla è Mark Zuckenberg, il quale, in una lettera ufficiale inviata al presidente della Commissione Giustizia della Camera dei deputati statunitense, Jim Jordan, ammette di aver censurato i social media di META, tra cui Facebook e Instagram, ai tempi del Covid, su pressante richiesta dell’Amministrazione Biden-Harris. E invece, trascorse dodici ore dall’annuncio, nulla o quasi: a parte qualche rara testata, in Italia il Fattoquotidiano.it, sulla vicenda è calato il silenzio mediatico.
Purtroppo non è la prima volta che capita, trattandosi, semmai, di una tendenza crescente nei media occidentali. Quando un fatto incontestabile contrasta con la narrazione ufficiale, scatta un meccanismo al contempo psicologico, istintivo e opportunistico, di rimozione. Gli esempi abbondano: ci sono voluti anni per riconoscere che le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, per timore delle quali fu lanciata la seconda Guerra del Golfo, in realtà non esistevano. In tempi recenti fa scuola il caso di Joe Biden: che egli avesse crescenti problemi di lucidità mentali era evidente da tempo ma è stato negato strenuamente per mesi dalla stragrande maggioranza dei media, i quali hanno ribaltato il proprio giudizio solo in occasione del dibattito televisivo con Trump.
La reticenza di queste ore è particolarmente significativa, non solo perché l’ammissione di Zuckerberg conferma i contenuti dei cosiddetti “Twitter files”, resi pubblici nel 2022 grazie all’apertura degli archivi voluta da Elon Musk, ma per le sue implicazioni riguardo l’autenticità delle nostre istituzioni democratiche. I
l fondatore di Facebook scrive di aver ceduto in più di un’occasione alle pressioni della Casa Bianca, privando quindi i cittadini statunitensi del diritto costituzionale a un’informazione libera e trasparente. Inoltre riconosce di aver impedito la diffusione della notizia del computer del figlio del presidente, Hunter Biden, pubblicata dal New York Post pochi giorni prima delle presidenziali del 2020 e particolarmente imbarazzante. Allora Zuckerberg si affidò ai fact checkers di Meta, che validarono la versione dell’FBI secondo cui si trattava di disinformazione russa e dunque influenzò il voto presidenziale. Perché quella notizia, se confermata, avrebbe spostato milioni di voti a favore di Trump. Notizia che poi è risultata vera; peccato che la stampa americana lo abbia ammesso solo molti mesi dopo, decisamente fuori tempo massimo.
Per correttezza è giusto precisare che Zuckerberg ha espresso rammarico per quanto accaduto e ha dichiarato di aver cambiato le regole sui fact checkers. Resta l’inaudita gravità della sua ammissione, anche perché si inserisce nella crescente tendenza in Occidente a tollerare e in molti casi ad autorizzare la censura. Ancora oggi pagine di commentatori scomodi vengono chiuse arbitrariamente su Google, che controlla YouTube, e i social di Meta; dunque il problema non è stato risolto. Anzi diventa sempre più grave, considerando la tenaglia del Digital Service Act in vigore nell’Unione Europea e le condanne al carcere duro di utenti in Gran Bretagna e le intimidazioni legali in molti Paesi europei, nonché ovviamente l’arresto a Parigi del fondatore di Telegram, Pavel Durov, gravato di accuse chiaramente pretestuose.
Il problema è serissimo. Fuor di metafora: la libertà di opinione è in pericolo nelle democrazie occidentali. E dovrebbe far insorgere tutti, a destra come a sinistra. E invece no, meglio il silenzio. Meglio accompagnare la narrazione dell’establishment, ovvero dell’élite ovvero dei Buoni, che notoriamente non sbaglia mai, sempre e solo per il nostro bene.
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